Studi di caso
L’educazione linguistica democratica
L’ Educazione Linguistica Democratica (d’ora in poi LDM) compie 50 anni nel 2025. Il suo Documento fondativo, le “Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica” sono infatti del 1975.
Da allora si è riconosciuto in quel documento e nelle relative implicazioni educative e didattiche un nutrito (ma non maggioritario) movimento di insegnanti che, salvo eccezioni da appurare, non ritengono offensivo, anzi, considerarsi ed essere considerati “di sinistra”, pur nella vaghezza e per certi versi inconsistenza, che oggi il termine può aver assunto.
L’essere di sinistra si poteva riconoscere in alcuni tratti distintivi: anzitutto il ritenere l’art. 3 della Costituzione, e in particolare il suo secondo comma, la finalità strategica del fare scuola e del loro essere insegnanti; e quindi il ritenere compito specifico e prioritario della scuola, di certo dell’obbligo, fin che dura, ma anche dopo, (provare a) garantire “tutti gli usi della lingua a tutti”, come si esprimeva in quegli anni Tullio De Mauro (non estraneo, in quel momento, ad echi delle differenti ma coerenti posizioni di Lorenzo Milani, Gianni Rodari e Pier Paolo Pasolini).
Va da sé, che da allora, molta acqua, non sempre limpida, è passata sotto i ponti e che sarebbe proprio il caso di fare una coraggiosa e anche severa analisi di ciò che nel frattempo è andato capitando della educazione linguistica nella scuola italiana. E fuori.
Interviste in occasione del seminario – L’educazione linguistica democratica per la scuola di oggi e di domani Nel nome di Tullio De Mauro – Roma, 17 novembre 2017. –
Competenze
Affrontare il tema delle “competenze” e di come sono andate le cose attorno a questo concetto e alle sue molteplici implicazioni, è questione assai complessa. E in parte dolorosa. Dico dolorosa per chi, come me, ha creduto che potesse trattarsi di una “leva di cambiamento” (non di “innovazione”), utile per trasformare profondamente il modo di fare scuola e di apprendere (non le sue finalità e le modalità di valutazione e certificazione degli esiti raggiunti). Per chi, come corollario di questa convinzione, credeva che fosse assurdo e pericoloso contrapporre conoscenze e competenze (e poi, anche, lo spirito critico) o avere, delle competenze, una visione produttivistica, quando non addirittura adattiva. Insomma per chi pensava che le competenze avrebbero potuto essere uno strumento essenziale di una scuola emancipante rispetto alla scuola tradizionale, nozionistica e inerte, senza farne una scuola al servizio di una concezione prevalentemente professionalizzante. Insomma chi credeva alle competenze della consapevolezza, del controllo delle procedure, dell’autonomia del soggetto in un quadro di relazioni e di collaborazioni con altri. Chi ha creduto alle competenze per lo “sviluppo umano” (M. Baldacci) e non per il “capitale umano” (il neoliberista di turno).
Non è andata così. E anche su questa vicenda, un vero e proprio “studio di caso” sugli ultimi 25 anni della scuola italiana, sarebbe il caso di tirare le somme. E trarne le dovute conseguenze.
Valutazione
Se l’educazione linguistica democratica è stata una prospettiva strategica non del tutto attuata e le competenze un banco di prova che si è rivelato alla fine in buona misura controproducente, la valutazione è stata, in questi primi 25 anni del nuovo secolo, il vero vortice che ha inquinato e poi via via corroso le speranze di rinnovamento della scuola in senso inclusivo ed emancipante. Afflitta da un vero e proprio parossismo valutativo, indotto da scelte di sistema quasi sempre sbagliate o mal condotte, da norme reazionarie e contromosse pavide e contraddittorie nonché da incompetenza e strategie sostanzialmente difensive e vessatorie di buona parte del corpo docente, la scuola ha progressivamente visto vanificato ogni tentativo di acquisire ed esercitare pratiche valutative e autovalutative coerenti e davvero utili. E ora ci troviamo al centro della più grave delle contraddizioni possibili, fra il martello del merito e l’incudine della valutazione formativa, ormai ridotta a prolusione retorica e priva di qualsiasi riscontro con la realtà. E, nel frattempo, e tanto per rimanere fedeli alle peggiori e più consumate pratiche, si continua a dare voti, ora accompagnati da improbabili descrittori di livello, retaggio classificatorio di teorie e pratiche delle “competenze”, via ridotte a defatiganti compilazioni di stringhe valutative, oscillanti fra l’inutile e l’inutilmente vessatorio. Con frequenti sconfinamenti nel ridicolo.
Sulla valutazione, ormai, la quantità di teorie, pratiche, parole, griglie, anatemi, leggi è strabordante, tipico esempio di proliferazione burocratica del nulla o dell’ipocrisia.
La valutazione, ormai, nella scuola italiana può solo più essere risanata attraverso soluzioni swiftiane: una moratoria almeno biennale di ogni forma valutativa, in attesa di trasformare radicalmente le procedure e le metodologie didattiche e di adottarvi poi pratiche valutative coerenti. Oppure, in alternativa, andare a vanti così: a perpetuare falsi ideologici su carta intestata.