Mario Ambel, febbraio 2025
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Un contributo con dibattito presso l’Accademia della Crusca
Mirko Tavoni, professore di Linguistica italiana e Filologia dantesca presso l’Università di Pisa, ha recentemente pubblicato un interessante contributo sull’insegnamento della grammatica sul sito della Accademia della Crusca, cui è seguito un nutrito dibattito cui hanno partecipato esperti e studiosi della materia. Una circostanza che meriterebbe comunque una sicura attenzione da parte di chi insegna lingue e segnatamente “italiano” e che, a maggior ragione, è opportuno seguire in questi momenti così delicati, nei quali si prefigurano ipotesi non del tutto rasserenanti di revisioni delle Indicazioni nazionali .
Tavoni, nell’intervento, pone alcune importanti questioni, palesi fin dal titolo: La competenza grammaticale è o non è importante per la comprensione dei testi? E quale competenza grammaticale? [1] Appare subito evidente come la questione grammaticale non è posta in modo fine a se stesso, ma messa in relazione con le competenze d’uso e in particolare con la comprensione del testo. Fatto, già questo, di estrema importanza.
L’autore aveva già affrontato questi problemi in una precedente analisi in tre puntate, apparse sulla rivista on line de Il Mulino, dal titolo “La grammatica a scuola serve?”[2], che apparivano però prevalentemente finalizzate alla legittimazione e promozione di un suo progetto da avviare con le scuole, cui è dedicato il terzo articolo. Ora questo intervento su L’accademia della Crusca, ne ripropone l’impianto, ma è più documentato e articolato, soprattutto nell’analisi di quel rapporto fra competenze d’uso e grammatica. L’impianto complessivo è analogo: la denuncia dell’insufficiente stato attuale dell’insegnamento linguistico e dei suoi risultati, la constatazione di come storicamente non si sia trovata una soluzione adeguata alle carenze o alle latitanze dell’insegnamento grammaticale tradizionale e quindi la ricerca di possibili soluzioni.
In quest’ultimo contributo, soprattutto, viene superata la domanda secca del trittico precedente (serve la grammatica?), orientata ora verso l’ancoraggio al rapporto fra norma e uso (ovvero fra comprensione e grammatica), che di fatto è essenziale e modifica profondamente il senso e la pertinenza pedagogica della questione.
Fare grammatica nelle “ore di italiano”, ma quante e quali?
È quindi importante che il saggio di Tavoni si ponga ora quelle due questioni ben più rilevanti, indicate dal titolo, ovvero parafrasando: ‘La grammatica serve a migliorare gli usi linguistici?’ e soprattutto ‘Quale grammatica è più idonea a questo scopo?’. Sono certamente domande non nuove, ma non per questo non rilevanti. E che forse è venuto il momento di porre e risolvere in modo nuovo.
Dirò subito, per anticipare il senso di questo mio contributo, che manca una terza (duplice) domanda, che sta particolarmente a cuore a chi, differentemente anche dalla maggior parte di coloro che hanno interloquito con Tavoni sul sito della Crusca, guarda a questi problemi da insegnante e non da linguista, ovvero in ottica di educazione linguistica (o linguistica educativa) e non di teoria linguistica, storia della lingua, filosofia del linguaggio, più o meno interessate e attente alle loro peculiarità e ricadute didattiche, o più genericamente sulla scuola. Nella prospettiva dell’educazione linguistica, oltre a ‘se serve la grammatica, e quale’, ci si deve porre una questione più strategicamente decisiva: ‘quando’ e ‘come’ fare grammatica?
A questo problema è riconducibile solo un cenno di Tavani, seppure significativo, nel ribadire il ruolo della scuola, oltre che dei molteplici fattori extrascolastici, nell’incidere sulle competenze linguistiche:
ma conterà anche qualcosa come vengano spese le due o tre ore di scuola dedicate alla lingua, sulle sei complessive riservate all’“Italiano”, ogni settimana, da due milioni e mezzo di adolescenti nel pieno del loro sviluppo intellettuale, e replicate per tre anni (alle medie) più due (al biennio) della loro vita.
Oltre al quando e soprattutto al come, ci sarebbe anche ‘perché’, ovvero a quale scopo è opportuno o utile fare grammatica, ma, come detto, questa preoccupazione è ampiamente e opportunamente presente nel ragionamento di Mirko Tavoni (meno in alcuni dei suoi interlocutori).
Il rapporto fra grammatica e comprensione del testo: dati e rilievi
Il punto di partenza del ragionamento di Tavoni sono gli scarsi risultati della scuola italiana e nello specifico nella comprensione dei testi e nella competenza grammaticale. E qui nihil novum (piccola concessione al retrò dilagante). Ma Tavoni inserisce nella sua indagine alcune interessanti novità. Fa riferimento (ormai ahimè inevitabile) ai dati Invalsi e Pisa, ma non si limita al commento delle variabili socio-territoriali dei grandi numeri. Indagando le percentuali di adeguatezza di singole risposte, cerca di trovare elementi interpretativi attorno ad una questione cruciale: ovvero il nesso, nella realtà scolastica (non nei desiderata dei progressisti o dei conservatori che da decenni dibattono sul tema), fra gli interventi didattici finalizzati alla comprensione del testo, che opportunamente egli concorda essere di fondamentale importanza, e quelli dedicati alla grammatica, che, come anch’egli ammette e deplora, è di fatto ancor sempre quella tradizionale della pletora di complementi. Quest’uso dei dati Invalsi è di per sé significativo poiché tenta di affrontare alcuni esiti di dettaglio delle prove in ottica di ricerca didattica, come sarebbe auspicabile avvenisse sempre, e non di valutazione di sistema, com’è istituzionalmente previsto e da decenni reiteratamente e inutilmente praticato.
Lavorando attorno alle risposte ai test Invalsi, Tavoni raccoglie dati sulle percentuali di risposte esatte rispetto a tre tipologie di domande: quelle per cui
A) non fosse necessaria nessuna particolare competenza metalinguistica; B) fosse necessaria una competenza lessicale; C) fosse necessaria una competenza morfologica, sintattica e/o linguistico-testuale.
Non gli è stato purtroppo ovviamente difficile constatare come le percentuali di risposte corrette diminuiscano da A) a B) a C) e viceversa aumentino quelle sbagliate.

L’indagine di Tavoni sulle risposte fornite alle prove Invalsi [3] rivela, a suo giudizio, che non c’è correlazione di risultato fra il tempo e la fatica spesi per imparare a comprendere testi e quelli spesi a far analisi grammaticale e logica. Sembrerebbe cioè evidente che fra le due operazioni linguistico-cognitive non vi sia correlazione e soprattutto che la competenza metalinguistica non sia d’aiuto alla competenza linguistica, ovvero al comprendere i testi. E questo è certamente un (grave) dato di fatto, ormai quarantennale. Cui andrebbe sicuramente posto rimedio.
Queste le conclusioni, in buona misura condivisibili che ne trae Mirko Tavoni:
E la ragione è che le competenze metalinguistiche, e in particolare grammaticali in senso lato, discriminano molto la popolazione studentesca: le domande a cui praticamente tutti gli studenti sanno rispondere sono tutte domande che non richiedono nessuna competenza metalinguistica. Ma chi si trova in questa condizione deve accontentarsi di cogliere solo ciò che il testo dice esplicitamente, direttamente e a chiare lettere, anzi a lettere cubitali. All’opposto, le domande a cui pochi studenti (addirittura meno della metà) sanno rispondere sono in grande maggioranza domande che richiedono competenze metalinguistiche, e in particolare grammaticali in senso lato. In altre parole, la mancanza o scarsità di competenze metalinguistiche limita drasticamente la capacità di comprendere i testi in modo preciso e approfondito, di cogliere informazione implicita, di trarre inferenze, di focalizzare quale sia l’intenzione comunicativa. E con ciò, possiamo dire, limita drasticamente la possibilità di godere di cittadinanza linguistica piena.
Ma c’è di più: un’attenta analisi della tabella fornita da Tavoni e una lettura degli esempi delle domande indagate rivelano un dato di fatto noto a qualsiasi insegnante riflessivo di scuola “media”, soprattutto se non ha insegnato nelle confort zone dove la lingua italiana, trattata abbastanza decentemente, si prende a colazione, merenda e cena e anche fuori dai pasti: la terminologia, le concettualizzazioni e anche le categorie classificatorie e interpretative della grammatica (tenderei a dire di qualsiasi grammatica) non solo non sorreggono l’uso di una buona metà dei parlanti presenti in classe, ma di fatto ne intralciano o impediscono la comprensione dei testi. E rendono impervia anche la relativa capacità di mettere in relazione, nelle prove Invalsi, i due eventi mentali e linguistico-cognitivi: la comprensione del testo e la concettualizzazione metalinguistica, che non solo non si pongono in relazione fra loro, ma impediscono di fatto quella relazione, che sarebbe invece decisiva.
Mi sia concesso un esempio: se nella comprensione di un testo narrativo che contenga una frase del tipo “Appena uscì di casa Giovanni lo vide”, viene posta la domanda, come talvolta faceva ma per fortuna (forse) non fa più l’Invalsi, “Lo è un articolo o un pronome?” è evidente che siamo di fronte a un quesito al massimo di competenza metalinguistica, che non ha nulla a che vedere con la comprensione del testo (anzi la distrae); se invece chiedessimo “A quale sostantivo citato prima nel testo (auspicando comunque di evitare di parlare di nesso anaforico o cataforico) si riferisce il pronome lo nella frase…)” complicheremmo inutilmente la vita a buona parte dei malcapitati e metà classe (in parte giustamente) fornirebbe all’Invalsi e a Tavoni il destro per dire che in loro non c’è correlazione fra competenza linguistica e metalinguistica, mentre a chi è un po’ più tranchant farebbe dire che non capiscono il testo. Saremmo tutti più sollevati se, nella parte di prove dedicata alla comprensione del testo, si chiedesse Chi ha visto Giovanni? (vera domanda di comprensione) con esiti certamente più confortanti.
Diversa è la questione se la domanda viene posta nella parte delle prove dedicata alla competenza grammaticale. E soprattutto è diversa la questione se, invece che di una prova di comprensione, ragioniamo di apprendimento: allora lì una sollecitazione operativa che rimandi sul testo anche con graduali riferimenti “grammaticali” diventa importante. Resterebbe comunque il problema di decidere se e soprattutto quando e come parlare di pronomi (e di richiami anaforici e di coesione testuale…) ovvero se, quando, quanto e come “fare grammatica”. Che è poi la vera questione dirimente, se ci si vuole occupare di didattica delle categorie grammaticali e del loro uso funzionale al miglioramento delle prestazioni linguistiche.
È opportuno, però, affrontare preliminarmente alcune questioni, per così dire complementari alla scelta del modello grammaticale, che emergono anche dal contributo di Mirko Tavoni e ai quali è nuovamente significativo prestare attenzione. Si tratta di temi che variamente chiamano in causa le Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica (che compiono quest’anno un travagliato cinquantenario), ancora una volta il magistero di Tullio De Mauro e l’intero movimento dell’Educazione linguistica democratica. Uso volutamente il concetto di “movimento” perché tale fu. Quella svolta di metà anni Settanta, come De Mauro e i suoi epigoni non hanno mai nascosto, fu anche un’azione politica oltre che didattica, come del resto è politica ogni questione relativa alla lingua (come ricordava Gramsci in alcuni suoi passaggi famosi). E politici sono spesso anche il senso e la direzione degli attacchi che a quella svolta vengono compiuti: aspetti che qui certamente non ho intenzione di sottovalutare, anche se preme maggiormente ribadire il senso teorico e pedagogico (e soprattutto la legittimità) delle posizioni in campo.
Questi temi complementari sono sostanzialmente questi: la ribadita critica alla grammatica tradizionale, la constatazione di un arretramento degli insegnamenti grammaticali a vantaggio di quelli relativi alle abilità linguistiche e la mancata affermazione di una alternativa alla grammatica tradizionale. Vediamoli, se pur sommariamente, in ordine. Sono questioni di cui si è ampiamente discusso, in questi anni, ma a quanto pare, mai abbastanza.[4]
La critica alla pedagogia linguistica tradizionale e alla grammatica normativa
Rispetto alle questioni se la grammatica serve, a che cosa e quale, ci sono infatti due significative convergenze nelle risposte che Tavoni ribadisce in questi suoi interventi e che al tempo erano presenti nelle Dieci Tesi, ne erano anzi dei principi-cardine: che anche la grammatica (all’interno dell’educazione linguistica) deve servire a incrementare le competenze linguistiche, vero fine della scuola (e non la conoscenza di questa o quella grammatica) e che, a questo scopo, il modello grammaticale da adottare non è quello “tradizionale”, fulcro invece di quella che le Dieci Tesi chiamavano la “pedagogia linguistica tradizionale”, la quale aveva anche molte altre responsabilità, in primis quella di ignorare le variabili e le condizioni sociolinguistiche delle e degli allievi, di nuovo (come negli anni Sessanta) assai rilevante.
Scrive Tavoni:
Sono convinto che le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica del GISCEL (1975) avessero ragione a criticare severamente la “pedagogia linguistica tradizionale”, cioè la grammatica che si insegnava allora a scuola. Ed era anche molto difficile, allora e diciamo nei venti anni successivi, individuare un paradigma grammaticale sostitutivo e riuscire a farlo accettare dal mercato scolastico, come alcuni tentarono generosamente di fare senza successo.
L’analisi del collegamento fra grammatica e comprensione è anche l’occasione, per Tavoni, per rettificare il giudizio sulle responsabilità dell’educazione linguistica democratica e per prendere le distanze da specifiche accuse a suo tempo mosse a De Mauro:[5]
[…] desidero chiarire che la mia critica a De Mauro è di segno opposto rispetto all’accusa che gli è stata rivolta, dopo la sua morte (2017), di aver innescato un lassismo scolastico che avrebbe portato alla «disfatta della lingua italiana» (sic). Il fatto è che l’insegnamento grammaticale tradizionale che De Mauro criticava è sempre rimasto lì al suo posto, le critiche di De Mauro e altri non lo hanno né sloggiato né scalfito. Tutti questi studenti che non sanno l’italiano hanno studiato su grammatiche tradizionali di dimensioni maestose. [6]
È di fondamentale importanza e verità quest’ultima affermazione. È infatti di nuovo necessario ribadire, anzi lo è ora molto di più, ribadire che la grammatica tradizionale non solo è scientificamente poco attendibile, ma soprattutto non serve a incrementare le competenze linguistiche, quando non è di intralcio, come da molto tempo (appunto almeno dalla metà degli anni settanta) sostengono molti docenti-ricercatori che vivono l’insegnamento linguistico a scuola, in particolare dove e a chi insegnare la lingua non è propriamente agevole. È importante ribadirlo perché questo è un tema sul quale, invece, molti detrattori di De Mauro sono assai sensibili e hanno opinioni diverse, che certamente porteranno in dote al Ministro Valditara[7].
L’analisi condotta da Tavoni è occasione dunque per dissociarsi da una fallacia che invece ha molto credito fra i detrattori di De Mauro e dell’educazione linguistica democratica e cioè che i bassi risultati nei test, l’abbassamento di livello degli usi linguistici e in genere il fallimento della scuola italiana sarebbero responsabilità della politica linguistica della metà degli anni Settanta. È infatti importante far giustizia rispetto alle reali responsabilità del declino degli esiti dell’insegnamento dell’italiano: se, dentro la scuola, vanno addebitate a chi, da metà degli anni Settanta, ha inteso abbandonare la “pedagogia linguistica tradizionale” e ha lavorato in altre direzioni o piuttosto a chi si è ostinato a restarne prigioniero e soprattutto a lasciarvi gli allievi per i quali è stata progressivamente sempre meno adeguata.
Tavoni, però, segnala altre due circostanze, per le quali non esclude una qualche corresponsabilità dell’atmosfera indotta dalle Dieci Tesi e dello stesso De Mauro: la progressiva rinuncia da parte della scuola a fare grammatica a vantaggio dell’incremento delle abilità linguistiche e il mancato consolidamento di una grammatica alternativa a quella tradizionale.
Il prevalere della competenza d’uso su quella grammaticale
Del resto era stato lo stesso Tavoni, in apertura del primo articolo per il Mulino a dar la sensazione di porsi nell’ottica che stato è il brodo di coltura delle critiche a De Mauro e alla educazione linguistica democratica discesa dalle Dieci Tesi , coinvolgendo anche il fil rouge che va dai programmi della scuola (allora) media del 1979, a quelli per la scuola primaria (1985), agli Orientamenti per la scuola dell’infanzia (1991), fino alle più recenti Indicazioni (2207-2012-2018), cui l’attuale Ministro vuol mettere mano:
Da cinquant’anni la grammatica a scuola gode di una condizione schizofrenica. Da un lato, nelle Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica (1975) del Giscel (Gruppo di intervento e di studio nel campo dell’educazione linguistica), scritte da Tullio De Mauro, suo fondatore, la grammatica è totalmente svalutata: “Tesi VIII.D: a) parzialità dell’insegnamento grammaticale tradizionale […]; b) inutilità dell’insegnamento grammaticale tradizionale rispetto ai fini primari e fondamentali dell’educazione linguistica […]; c) nocività dell’insegnamento grammaticale tradizionale”. […]
Sulla scia di questa impostazione, i ministeri che si sono succeduti da allora a oggi hanno limitato molto l’importanza della grammatica, a partire dalla riforma dei programmi della scuola media del 1979 fino alle vigenti “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione” (2012). [8]
Corrisponde al vero che molti insegnanti democratici (uso il termine non ad escludendum, ma per contrassegnare chi si è riconosciuto in quel movimento), a partire dagli anni ottanta, hanno finito in parte col trascurare l’attenzione didattica alla dimensione grammaticale e metalinguistica a vantaggio di quelle relative all’incremento delle competenze nell’esercizio delle “quattro abilità”. Molti (soprattutto dove insegnare italiano era ed è più difficile) si sono preoccupati più di come incrementare le competenze di lettura e scrittura, che quelle metalinguistiche. Ma non sono mai stati la maggioranza. Le motivazioni di questo prevalere della componente operativa su quella riflessiva (abbiamo sempre parlato più di “riflessione sulla lingua” che di “grammatica”) sono state molte e ad alcune si è già fatto cenno. Vi sono però altre motivazioni molto importanti, che in parte ritornano anche nell’analisi di Tavoni:
i) a monte e comunque per molti dirimente, evitare pratiche che producessero o ampliassero rischi ed effetti di esclusione all’interno della classe, cui invece la sostanza e le metodologie della grammatica tradizionale si prestavano efficacemente, mentre incentivare in modo opportuno l’’esercizio di competenze d’uso tendeva a ridare legittimità anche ai “cancelati dalla dotrina”[9];
ii) prestare attenzione e cura al nesso fra competenza implicita e competenza esplicita nel parlante, per consolidarli e non per inibirlo; così come ai livelli di partenza e alla realtà sociolinguistica degli allievi (capisaldi della trasformazione pedagogica auspicata dalle Dieci Tesi);
iii) non poter disporre, nella cultura e nella pratica professionale dei docenti di lettere, di una grammatica alternativa a quella tradizionale, non tanto e non solo come adesione a questa o a quella teoria linguistica, ma come grammatica pedagogica realmente funzionale agli apprendimenti linguistici.
A far da contrappeso (o da contrappasso) a questa disattenzione da parte di alcuni nella scuola per la grammatica o del permanere di molti nella zona tradizionale di confort e di preparazione alla secondaria di II grado, c’è anche, però, la non sufficiente attenzione (salvo eccezioni ovviamente) dell’accademia per la ricerca didattica, lo studio e la sperimentazione nel campo delle metodologie e delle pratiche relative alle competenze d’uso e all’incremento delle abilità linguistiche. E anche a questo andrebbe posto rimedio.
A conferma della critica per aver trascurato le grammatiche a vantaggio della pratica (per dirla con un vecchio adagio), Tavoni, nella sua disamina, non risparmia critiche anche alle Indicazioni del 2012, sottolineando come si pongano finalità persino troppo ambiziose sul terreno dell’esercizio delle abilità linguistiche, ma assai fragili sul fronte delle competenze grammaticali. Questa è una critica ricorrente, che rischia di far agio alle recenti ipotesi di revisione. Ma val molto, al riguardo, l’osservazione di Stefano Gensini:
E ci sarebbe da esser contenti se le stesse “indicazioni nazionali” sulla grammatica, che Mirko trova scarse, trovassero adempimento, diciamo, alla fine del biennio superiore. In questo settore, indubbiamente, c’è stata una marcia indietro del corpo docente (almeno in una non piccola quota di casi): la grande ventata delle Dieci tesi Giscel, che per alcuni lustri ha ravvivato le metodiche di insegnamento dell’italiano, in mancanza – ricordiamolo! – di un serio piano nazionale di aggiornamento, si è affievolita, mentre – anche per dinamiche generali della società – crescevano le spinte conservatrici o restauratrici.[10]
La mancanza di una grammatica alternativa a quella tradizionale
Certamente interessante è riflettere sulla mancata affermazione di una alternativa alla grammatica tradizionale, nella formazione dei docenti, nelle scelte editoriali e quindi nelle pratiche didattiche: fattore che per altro, come si è detto, in qualche misura giustifica sia il permanere della grammatica tradizionale sia la priorità attribuita all’incremento delle competenze d’uso, soprattutto fra le e gli insegnanti che possiamo definire genericamente “progressisti” e spesso più interessati all’incremento e al miglioramento delle “quattro abilità” che al controllo della grammatica esplicita, soprattutto se “tradizionale” e soprattutto per coloro che non sarebbero poi andati a metterla a frutto nei licei, dove per altro si sarebbe anche potuto provvedere a incrementarla secondo i bisogni contestuali e non pretenderla come prerequisito.[11]
A questo proposito Tavoni individua alcune responsabilità, sia dell’accademia (e dello stesso De Mauro) sia della scuola: per la prima, non aver voluto e potuto elaborare una grammatica alternativa alla “grammatica tradizionale”; per l’altra, aver rifiutato pressoché sistematicamente tutti i tentativi di farlo (e non sono mancati).
Dal punto di vista della scuola, chi iniziò (il passato remoto è d’obbligo, non solo temporale ma ormai anche, purtroppo, culturale) a insegnare a metà degli anni Settanta ricorda bene i tentativi, anche assai diversi fra loro, di introdurre nella scuola grammatiche innovative e alternative e lo scarso impatto che ebbero sulla scuola. È vero che le e gli insegnanti hanno quasi sempre rifiutato (in parte per ragioni comprensibili) di adottare modelli grammaticali che non conoscevano e sui quali non si sentivano sicure/i. La grammatica tradizionale è sempre stata un porto protetto, rispetto alle innovazioni che venivano (e vengono ancora spesso) intese come una navigazione a vista nella nebbia densa. A differenza di alcune proposte, anche editoriali, relative alle abilità linguistiche, in particolare la lettura, che, almeno per qualche stagione, introdussero allora significativi cambiamenti. E anche su questo versante sarebbe interessante indagare con maggior attenzione la natura, la permanenza o l’involuzione dei cambiamenti indotti dalla stagione delle Dieci Tesi.
La questione della mancata realizzazione di grammatiche scolastiche alternative alla grammatica tradizionale appare altrettanto complessa dal punto di vista del dibattito in ambito teorico; al cui interno Tavoni individua alcune responsabilità: il rifiuto, che giudica in parte pregiudiziale, degli approcci teorici generativo-trasformazionali, in particolare da parte dei sociolinguisti; il non aver dato sufficiente seguito e diffusione al lavoro di Renzi, Salvi e Cardinaletti, sfociato nella grande Grande grammatica italiana di consultazione. Su queste problematiche più propriamente teoriche, ma anche sulle loro implicazioni “politiche” e sui rapporti con le Dieci Tesi, è utile leggere un recente contributo, anche di ricostruzione storica, di Lorenzo Renzi [12].
Da questo punto di vista, è possibile ritenere che la ricerca e le sperimentazioni condotte nell’ambito della grammatica valenziale applicata all’insegnamento, attraverso il lavoro di figure che anche Tavoni rammenta (Sabatini e Lo Duca, De Santis) e altre/i (Provenzano) debba trovare nella scuola ancora maggior attenzione e occasioni di ricerca e sperimentazione.[13] Anche se, su questo terreno, non poco potere e responsabilità hanno l’editoria scolastica e le dinamiche di mercato, le cui opzioni dipendono dalle convergenze, volute o forzate, talvolta imprevedibili, altre volte più scontate, che si creano nelle dinamiche della promozione editoriale, non raramente eterodirette dalle convinzioni e dagli orientamenti dei promotori. Certo è, e anche a questo fa cenno Tavoni, che sarebbe tempo di modificare radicalmente forme e contenuti della produzione editoriale nel campo dell’educazione linguistica, se non altro per evitare di continuare a far spendere alle famiglie costi elevati per prodotti sovradimensionati e in parte inutili.
Ultima questione sollevata da Tavoni, di estrema importanza sul fronte scolastico, è l’aver trascurato le ipotesi, cui egli si sente vicino, di “grammatiche ragionevoli” e in parte eclettiche, quali vennero proposte, fin dalla metà degli anni settanta, agli albori di questa querelle, dallo stesso Renzi e, fra i docenti con solide competenze teoriche, da Adriano Colombo, Maurizio Della Casa e Daniela Bertocchi, per citare insegnanti-ricercatori certamente ascrivibili al movimento che si è ispirato alle Dieci Tesi e che non hanno nulla a che fare con la disattenzione per la grammatica. Quelle qui ricordate sono questioni che vanno certamente riprese e magari portate finalmente a un esito condiviso, soddisfacente e soprattutto utile ai processi di insegnamento/apprendimento.
Senza dimenticare, però, che il fine ultimo dovrebbe rimanere quello indicato a suo tempo da De Mauro e dalle Dieci Tesi e costantemente ribadito da docenti rimasti fedeli a quelle prospettive, anche sul fronte accademico (Sobrero, Ferreri, Gensini, Vedovelli, Piemontese, Lo Duca, e altre/i): incrementare le competenze linguistiche diffuse fra studenti e adulti, in una prospettiva di contrasto alle disuguaglianze e di lotta alle discriminazioni.
Quale modello: grammatica pedagogica e ragionevole eclettismo
È probabile che, per costruire una pratica delle competenze metalinguistiche funzionali all’apprendimento[14], vada ripresa in seria considerazione l’ipotesi di un approccio ragionevolmente eclettico, ma che sia tale soprattutto dal punto di vista didattico, ovvero che attinga, anche da teorie diverse, sguardi e pratiche adeguati ai diversi e molteplici aspetti della lingua e della comunicazione nella prospettiva dell’incremento delle competenze. Purché si mantenga una sostanziale coerenza di fondo e non debbano pagare i discenti le oscillazioni o i cambiamenti di scelte teoriche di riferimento, sia accademico che didattico. Così, nel dibattito seguito sulla Crusca all’intervento di Tavoni, si esprime Michele Prandi:
In questo momento, grazie alla riflessione grammaticale della seconda metà del ‘900, alla quale alcuni di noi hanno partecipato in modo diretto, disponiamo degli strumenti concettuali per un costruire una grammatica ragionevole, e quindi per porre le basi di un insegnamento ragionevole della grammatica nella scuola.[15]
Non è una questione nuova, ma è tempo di risolverla. A proposito di “Grammatica pedagogica” e di “grammatica ragionevole” è del 1983 il contributo in cui Daniela Bertocchi delineava i punti fermi di un proficuo incontro fra teorie linguistiche e insegnamento della lingua, affrontando anche il problema della scelta fra “modello unitario o un ragionato eclettismo” [16].
È anche probabilmente giunto il tempo di ridefinire un sillabo unitario e qualche forte orientamento metodologico per l’insegnamento linguistico: verrebbe da dire, in analogia con quanto hanno fatto i matematici, negli anni scorsi, individuando le modalità generali e condivise di una “matematica per il cittadino”. Forse è il tempo di delineare e realizzare i presupposti di una lingua per la cittadinanza collettiva e l’emancipazione (non la competitività) individuali. C’è bisogno per questo di un sillabo unitario, non al servizio però di questa o quella teoria o di qualche mediazione fra loro, o del pasticciato compromesso fra linguistiche e analisi logica tradizionale, ma capace di far da base essenziale per le metodologie didattiche efficaci finalizzate all’incremento delle competenze [17].
Soprattutto sarebbe importante, accanto alla finalità dell’incrementare le competenze linguistiche, rimodellare e rinforzare la componente cognitiva e metacognitiva delle finalità dell’insegnamento grammaticale. Al riguardo, è fondamentale ribadire che, tra gli obiettivi strategici dell’esercitare competenze metalinguistiche, è importante far riferimento, alla “crescita cognitiva”: Lo Duca, nel volume citato, (in sintonia e in continuità con Berretta, Bertocchi, Sabatini, Altieri Biagi) afferma che va difesa e praticata la possibilità che
La riflessione sulla lingua possa svolgere un ruolo importante nel migliorare le abilità cognitive di base, attivando alcune capacità mentali – l’osservazione, il riconoscimento di analogie e differenze tra elementi linguistici, la classificazione e l’ordinamento in categorie e sottocategorie, l’istituzione di relazioni logiche per i diversi elementi, la rappresentazione e la simbolizzazione, l’inferenza, la generalizzazione e così via che sono alla base dei processi di pensiero più maturi .[18]
Criteri per una pratica grammaticale funzionale all’incremento delle competenze testuali e metatestuali
Dal punto di vista della progettazione curricolare di italiano è importante che le pratiche di riflessione sulla lingua e il rinforzo delle competenze metalinguistiche rispettino tre condizioni-finalità, per altro assai difficili da perseguire: ovvero è importante siano tali da far sì che…
i) la competenza implicita si rinforzi, emerga e divenga competenza esplicita, alimento di due dimensioni che mancano a chi non eccelle sia nell’uso che nella riflessione: la consapevolezza e il controllo delle procedure;
ii) la riflessione sulla lingua e la conseguente competenza metalinguistica interagiscano in modo integrato con l’agire linguistico e funzionino quindi da ponte fra lettura e comprensione, da un lato, e riscritture, scritture e riuso dei frutti della comprensione dall’altro [19];
iii) il progressivo incremento delle competenze sia linguistiche d’uso sia metalinguistiche, che dovrebbe derivare da queste due condizioni, avvenga in modo graduale e nel rispetto del progressivo sviluppo cognitivo e linguistico delle allieve e degli allievi. Tutto ciò, a scuola, può e deve avvenire se facendo grammatica si riesce a dar senso, nomi e spiegazioni al percepito linguistico, ponendosi in relazione con la “grammatica vissuta” e i giudizi del parlante, anche astraendo e ricostruendo prerogative e potenzialità del codice linguistico, ma soprattutto ponendosi in stretta connessione con l’agire linguistico, il leggere, l’ascoltare, il parlare e lo scrivere e soprattutto il capire.
Si tratta di ricomporre la distanza e la frattura fra la riflessione sulla lingua e l’esercizio della competenza metalinguistica, estesa a tutta la gamma delle dimensioni linguistiche in senso lato, e l’esercizio di quelle “quattro abilità linguistiche” e dei loro intrecci che, dai “Nuovi programmi” della scuola media 1979 (eredi delle Dieci Tesi) e dai successivi Orientamenti per la scuola elementare in poi accompagnano e per l’appunto orientano le preoccupazioni degli insegnanti. Più della grammatica esplicita? Sì, forse talvolta più e persino senza la grammatica. Ma è venuto il tempo, non tanto di ritornare alla grammatica, men che meno se normativa, quanto di assegnare alla grammatica un posto e un ruolo strategici entro l’agire, che vorrebbe poi dire farne una competenza attiva e non solo una conoscenza spesso inerte.
In tal senso questa funzione pedagogica ed educativa del fare italiano deve anche riorientare che cosa intendere per “ragionevole eclettismo”, un eclettismo che si legittima non tanto come conciliazione o mediazione fra approcci teorici diversi, ma un eclettismo che si delinea nel momento in cui la grammatica si integra nel progetto curricolare di rinforzo delle competenze linguistiche. Dal punto di vista della scuola, ciò che conta ed è fondamentale, è attingere in modo opportuno e coerente a quegli approcci teorici (anche differenti ma non contraddittori fra loro) che di volta in volta illuminano aspetti diversi della lingua e della comunicazione. Ciò che non interessa, e non può essere utile, è l’eclettismo che nasce da motivazioni prevalentemente teoriche (conciliare diverse “linguistiche” o scuole di linguistica all’interno dello stesso campo di fenomeni) o commerciali (adottare approcci innovativi, ma tentare al contempo di conciliarli con terminologie e logiche tradizionali, per renderli apparentemente più appetibili, con il risultato però spesso opposto di renderli indigesti). Ed è una sensazione che si ha talvolta consultando alcuni prodotti editoriali, che appaiono più come la stratificazione di approcci diversi che la scelta, compatta e coerente, di una ipotesi di lavoro pedagogicamente funzionale.
Il posto della “grammatica”: cerniera, interfaccia, motore regolatore
Con queste riflessioni attorno ai principi di una possibile grammatica finalmente funzionale ad incrementare e migliorare gli usi linguistici, ci avviciniamo al vero nodo della questione, almeno per chi guarda a queste vicende dal punto di vista dei processi di insegnamento/apprendimento, ovvero: quando e come fare riflessione sulla lingua e incrementare le competenze metalinguistiche, che è cosa comunque diversa dal “fare grammatica”. Ragionare su quando, quanto e come “fare” grammatica significa interrogarsi sulla collocazione e la direzione della grammatica.
Dal punto di vista dei processi di insegnamento/apprendimento, il vero nodo è quindi sia di carattere teorico (quale modello grammaticale) sia, e forse ancor di più, di carattere metodologico: non solo è necessario capire e scegliere quale modello grammaticale sia più funzionale a queste finalità, ma decidere quando, quanto e come farne uso e spenderlo in classe. E la risposta non può che essere trovata nella necessità di intrecciare e integrare metodologicamente e operativamente le competenze linguistiche e le competenze metalinguistiche e il loro progressivo, costante e reciproco incremento. Nel raccordo continuo, al contempo operativo e riflessivo, fra incremento delle abilità linguistiche e momenti di riflessione metalinguistica a sostegno della comprensione e/o della produzione e altri momenti di approfondimento e sistematizzazione concettuale sta non solo la risposta alla domanda che ci facciamo da 50 anni “Se e a cosa serve la grammatica”, ma soprattutto la speranza di ottenere risultati migliori a scuola.
E allora il problema, anzi la soluzione, è tornare a quella riflessione sul tempo e la fatica consumati a scuola: quando e quante ore impiegare e soprattutto per far fare che cosa, ovvero manipolando testi per capirli e magari trovarvi i pronomi per impossessarsene (e poi scriverli) meglio e non ascoltando l’insegnante o il libro che spiegano cos’è un pronome o un’anafora. Il problema della grammatica a scuola è che la capisce solo chi ha una percezione mentale di ciò di cui la grammatica parla. Chi fa grammatica a scuola spesso si illude che chi non la sa possa riconoscere un pronome attraverso la definizione o un esempio. Ma questa idea dovrebbe essere superata da tempo. Impara cos’è un pronome e a chiamarlo così e a capire a che cosa serve e come potrà servirgli chi lo percepisce nel testo attraverso la soluzione di un problema di comprensione o di scrittura, ovvero attraverso l’esercizio e il rinforzo della sua competenza implicita o vissuta e prova quindi il desiderio e il piacere o la necessità di dargli un nome e un senso, rendendola esplicita e consapevole.
Analizzare e concettualizzare frasi, testi e relativi contesti deve mirare non solo a quelle generiche capacità di ragionamento logico che venivano (e vengono) sempre evocate per difendere i reali o presunti benefici effetti dell’analisi logica e derivati, ma una riflessione operativa, nell’ottica di quanto detto per la “crescita cognitiva” e di un rinnovamento delle metodologie didattiche, deve assumere il ruolo di una vera e duplice interfaccia: fra competenze implicita ed esplicita da un lato e fra esercizio delle abilità linguistiche tra loro interrelate e consapevole controllo delle procedure che lo rendono non solo possibile, ma efficace, dall’altro. Da un lato quella crescita linguistico-cognitiva (dove linguistico, oltre la sintassi “semplice e complessa”, sta anche per fonologico, morfologico, lessicale e semantico, testuale e contestuale) deve consentire il consolidamento, l’ampliamento, l’emersione e infine la concettualizzazione delle competenze metalinguistiche implicite, dall’altro deve far da alimento e riorientamento delle attività di comprensione (nell’ascolto e nella lettura), produzione (orale e scritta) e nelle molte possibili rielaborazioni intertestuali.
Certo, per perseguire questa strada, sarebbero necessari molti cambiamenti, anche radicali, sia nella ricerca e sperimentazione di rinnovate pratiche didattiche, nella formazione, iniziale e permanente dei docenti, che nell’editoria scolastica. E anche nelle aspettative e nelle pressioni delle famiglie. Quello di cui sicuramente non c’è bisogno è il ritorno a nostalgie di grammatiche normative, con impianti metodologici tradizionali, di cui si sente aleggiare al traino di ipotetici rinnovamenti retrospettivi patrocinati dal Ministero del Merito. Vorrebbe dire riconciare faticosamente da capo, e purtroppo in condizioni assai più complesse di quelle di allora. E non sarebbe facile; ricorda giustamente Stefano Gensini:
Bisognerebbe dunque, come metodo, considerare che la scuola (la bistrattata, screditata, malpagata, iperburocratizzata scuola dei nostri anni) si muove in sostanza da sola in un contesto culturale complessivamente depresso, nel quale incide, fra l’altro, la precarietà e talora l’inesistenza di un sistema di biblioteche e centri pubblici di lettura, una gestione da terzo mondo (per qualità culturale) della enorme risorsa rappresentata dal mezzo televisivo, per nulla dire (ci torno fra breve) delle carenze nella prima formazione e nell’aggiornamento del personale insegnante. [20]
Note al testo
[1] Tavoni M. [2], “La competenza grammaticale è o non è importante per la comprensione dei testi? E quale competenza grammaticale?”, in “Accademia della Crusca”, 16.12.2024 https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/la-competenza-grammaticale–o-non–importante-per-la-comprensione-dei-testi-e-quale-competenza-gramm/38818
[2] Tavoni M [1], “La grammatica a scuola serve?”, Il Mulino, prima puntata, 5.9.2024; seconda puntata, 12.09.2024; terza puntata, 19.09.2024. https://www.rivistailmulino.it/a/la-grammatica-a-scuola-serve-1, -2, -3.
[3] Non è qui il luogo per citare singoli rilevamenti ed esempi, ma è opportuno, per chi lo desideri, andarli a leggere: vedi Tavoni M. [2], op. cit.
[4] Si potrebbe tracciare, pur senza voler sottovalutare altri importanti contributi, un arco ideale di interventi sistematici sui rapporti fra linguistica ed educazione linguistica che va da Berretta M., Linguistica ed educazione linguistica. Guida all’insegnamento dell’italiano, Einaudi, 1977 a Lo Duca M. G., Lingua italiana ed educazione linguistica, Carocci editore, 2013. E a metà strada, Ferreri S. e Guerriero M.R., a cura di, Educazione linguistica vent’anni dopo e oltre. Che cosa ne pensano De Mauro, Renzi, Simone, Sobrero, La Nuova Italia, 1998.
[5] Sarebbe auspicabile non dover più tornare su quelle accuse, alle quali la comunità scientifica e quella professionale hanno già risposto: lo stesso Tavoni, sugli attacchi a De Mauro e all’educazione linguistica, sollevati a proposito degli esiti deludenti della scuola, rimanda alla Lettera dei seicento, ma invita anche a vederela “(risposta di M.G. Lo Duca), con tutta la polemica scaturitane, dalle vaste implicazioni ideologiche, sociologiche, politiche e linguistiche”. Al riguardo esemplare anche Renzi L., “La grande eredità culturale di Tullio De Mauro”, Accademia della Crusca, 13.02.2107, https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/la-grande-eredit-culturale-di-tullio-de-mauro/7408
[6] Tavoni M., “La grammatica a scuola serve?”, cit., prima puntata.
[7] Si sono fatti nomi autorevoli fra gli esperti coinvolti dal Ministro in campo linguistico, ma i tempi sono quelli che sono e non è possibile sottovalutare come fra i consulenti del Ministro particolarmente attivi nella formulazione di proposte alternative alle attuali Indicazioni ci siano anche esponenti più volte protagonisti di quelle accuse e non certo con toni pacati.
[8] Tavoni M., “La grammatica a scuola serve?”, cit., seconda puntata; la condizione schizofrenica cui fa riferimento Tavoni è da un lato questa disattenzione alla grammatica, dall’altro il persistere della grammatica tradizionale, anche nei manuali scolastici.
[9] Il riferimento è al volume di Migliorini L., a cura di, Cancelati dalla dotrina, Bompiani, 1975, con una prefazione di De Mauro, dal titolo “Il linguaggio a Montecucco”.

[10] Stefano Gensini nel dibattito sulla Crusca; ragionamento ripreso poi nel recente incontro on line curato dal Giscel “Grammatica e grammatiche nell’educazione linguistica a scuola e all’università”, 24.1.2025, registrazione reperibile in https://www.youtube.com/watch?v=HWPuq-lXxgM
[11] Ma questo è un altro discorso, che aprirebbe a una questione seria e non risolta e non a caso richiamata in auge tra i repêchages del Ministro: l’insegnamento del latino.
[12] Renzi L., ”Le Dieci Tesi del Giscel e la grammatica” in Ferreri S. e Loiero S., a cura di, Memorie per il futuro, Franco Cesati Editore, 2024, pp. 65 – 74.
[13] Per il resoconto di un lavoro di ricerca sul campo, tra teoria e pratica didattica, che affronta anche il tema del rapporto fra scelte teoriche e incremento delle competenze, è utile il riferimento a Provenzano C., “Un sillabo di grammatica valenziale”, Italiano LinguaDue, n. 2. 2019, pp. 333-348. Una interessante sperimentazione sul campo, tra le altre, è quella cui si fa riferimento nel volume L. Camizzi L., a cura di, Didattica della grammatica valenziale: dal modello teorico al laboratorio in classe, Ricerche Indire, Carocci; anche se forse con qualche eccesso di anticipazione negli obiettivi della progressione curricolare, per quanto riguarda la scuola primaria.
[14] Andrebbe ripreso e ridefinito il concetto di “grammatica pedagogica”: se ne è parlato, negli scorsi decenni, soprattutto in riferimento all’insegnamento delle lingue straniere o dell’italiano come L2, mentre qui è pertinente pensare alla componente grammaticale di un insegnamento più in generale funzionale all’incremento delle competenze linguistiche, anche da parte di quella lingua praticata dalla nascita e per la quale il soggetto è (più o meno) provvisto di una ”grammatica vissuta” o implicita.
[15] Michele Prandi, nel dibattito seguito all’intervento di Mirko Tavoni.
[16] Bertocchi D., “La riflessione sulla lingua in L1 e L2”, originariamente in Matarese Perazzo M.T., a cura di, Inssgnare la lingua. Interdisciplinarietà L1-L2, Ed. Scol. B. Mondadori, 1983, pp. 71 -94; ora in Bertocchi D. I fili di un discorso, Aracne, 2015, pp.211-230. Il tema è ampiamente affrontato, nel termini allora possibili in Ambel M., a cura di, Insegnare la lingua: quale grammatica?, Ed. Scol. B. Mondadori, 1983.
[17] Nell’ambito del Giscel si dovrà continuare a lavorare da tempo in questa direzione, anche perché le nubi all’orizzonte sono pesanti. Nel volume Memorie per il futuro le curatrici Ferreri e Loiero ripropongono una “versione rinnovata e ridotta” del documento “Idee per un curricolo di educazione linguistica democratica”: si continui a lavorarci e ci si prepari a metterlo in relazione con le ipotesi in fase di elaborazione da parte del Ministero; cfr. Ferreri S. e Loiero S.,2024, pp. 197 -220.
[18] Lo Duca M.G., op. cit., p. 181.
[19] Va in questa direzione la proposta di impostazione metodologica e di lavoro esposta in Ambel M. e Provenzano C., “Comprensione, riflessione, scrittura: per un approccio integrato e strategico”, in Cignetti L., Fornara S. e Manetti E.D., a cura di, La scrittura nel terzo millennio, Atti del convegno di Locarno, 18-20 novembre 2021; I Quaderni del Giscel V, Franco Cesati Editore, 2023, pp. 17-32.; di imminente pubblicazione anche il resoconto analitico di una esperienza di ricerca e sperimentazione condotta per Indire in AA.VV., Comprendere, riflettere sulla lingua, ri/scrivere: una ricerca empirica di didattica dell’italiano dalla primaria al biennio, in corso di stampa.
[20] Stefano Gensini, nel dibattito seguito all’intervento di Mirko Tavoni
Appendice.
Prodromi di una pedagogia bifronte
E il futuro? Tra artificiale …
Fin qui il passato e forse solo più in parte il presente. Perché è in atto il concreto rischio di dover rivedere profondamente tutte queste nostre elucubrazioni. Oggi non sappiamo più se e soprattutto come insegneremo a leggere e scrivere al tempo degli assistenti digitali e dei LLM. Figuriamoci se abbiamo una qualche ipotesi attendibile sul ruolo che potrà avere la grammatica nell’interazione con gli LLM e altri dispositivi, che si rinnovano ormai freneticamente ed entrano pesantemente nella scuola! Questo è un tema, ormai ineludibile, da riprendere con maggior attenzione analitica e critica.
Certo si ha la sensazione che non sarà una soluzione ricominciare con la grammatica normativa o il latino nelle medie. Speriamo che i consulenti del Ministro Valditara ne siano convinti! Anche se molti segnali sembrano confermare l’ipotesi che, per qualche nefasta stagione, si corra rischio di tornare indietro di decenni, mentre, al contempo, ci si illuderà di correre in avanti a occhi bendati nelle “google classroom” e simili.
Del resto, mentre discutiamo e sperimentiamo se la soluzione è la consegna “In questi testi sottolinea in blu gli articoli e in rosso i pronomi”, questa operazione qualsiasi LLM la fa in un tempo infinitesimale; e ovviamente in modo ineccepibile. Forse. E ci resterà sempre l’assillo di capire come ha imparato a farlo! Anche se… possiamo già cominciare a chiederlo a uno di loro…

A prima vista, per chi ha lottato per una vita contro la grammatica normativa e la sue pratiche applicative sembrerebbe non esserci altro da fare che pentirsi amaramente e chiedere venia, auspicando il repentino riaffermarsi di una nutrita truppa di grammatici nostalgici che riconvertano (ma come abbiamo visto non ce n’è bisogno) le e gli insegnanti a ribadire le loro pratiche di grammatica tradizionale, normativa, trasmissiva e deduttiva.
Ma, attenzione, le risposte di Copilot e il suo modo di agire non dimostrano che chi non sa la grammatica la impara applicandola, bensì l’esatto contrario: che può applicare le conoscenze grammaticali solo chi le ha tutte, definizioni, elenchi e funzioni comprese. Copilot confronta ciò che ha in memoria (alcuni dicono anche senza capirlo, ma qui la questione è più delicata e dipende da che cosa si intende con “capire”) su articoli e pronomi (e ha pressoché tutto quello che serve) con le occorrenze fornite dal testo e formula la risposta. Il nostro problema è l’esatto opposto: far esperire sul testo l’esistenza di articoli e pronomi, per poi dar loro nomi, definizioni, classificazioni e descrizione delle funzioni (conoscenze grammaticali), da applicare poi altrove (competenze grammaticali).
Ho provato a svolgere lo stesso dialogo con DeepSeek (uno dei concorrenti “cinesi” di Copilot, prima che, a conforto delle Major americane, iniziasse una fase di ostracismo della piattaforma asiatica. Ebbene la sua spiegazione di “come fa a riconoscere” articoli e pronomi è stata assai interessante. Dopo averne fatto un elenco descrittivo, per gli articoli afferma:

È interessante che quello che sembrava il punto di partenza, arrivi solo alla fine. DeepSeek non dice da dove ha ricavato questa procedura, ma nella consultazione di siti come studenti.it è possibile trovare suggerimenti analoghi per altri problemi.
Certo la questione vera è – e soprattutto sarà – questa: se invece di far faticosamente cercare agli allievi di ragionare sui “lo” del testo, l’attività la svolgerà velocemente l’assistente in classe, sarà difficile che allieve e allievi possano imparare non solo a riconoscere i pronomi e gli articoli, ma soprattutto a fare i ragionamenti che sono sottesi al loro reperimento sul testo. In realtà la soluzione potrà essere che l’assistente docente (o il docente assistente) non venga programmato e usato per svolgere il problema, ma per farlo fare ai discenti e commentarlo con loro. In questo caso, sarà l’insegnante a veder progressivamente regredire conoscenze, competenze e ruolo. Ma in fondo, a molti sembrerà il male minore. Molto dipenderà da quale grammatica e soprattutto verso quale approccio metodologico si sarà deciso di addestrare gli educatori digitali. Se in senso adattivo o emancipante. Speriamo bene, ma anche qui, se il buongiorno si vede dal mattino, c’è poco da star sereni.
Su quale potrà essere l’educazione linguistica al tempo degli LLM e degli assistenti digitali alle procedure linguistico-testuali sarà bene cercare di farsi delle idee un po’ più chiare, ma una cosa appare probabile: leggere e scrivere, ma anche parlare e ascoltare, in modo consapevole, utilizzando dispositivi digitali come assistenti e al contempo controllando le procedure, proprie e “loro”, anche sulla base di buone competenze metalinguistiche (in senso lato), consentirà (forse a pochi) di ottenere risultati più significativi, ma sarà in qualche misura più complesso. Più agevole, invece, sarà (per molti) delegare ai dispositivi l’esecuzione delle operazioni di comprensione e produzione e quindi di pensiero.
… e retrò
Ma può accadere anche di peggio. Non solo che non si voglia (o non si riesca a) educare la maggioranza delle prossime generazioni a interagire consapevolmente con la miriade di assistenti digitali, più o meno efficaci o attendibili, di cui si potrà disporre, ovviamente in virtù di variabili diversificate su basi socioeconomiche e culturali, e anche in base del tipo di scuola. Di peggio, può succedere che, almeno per qualche nefasta stagione, si corra il rischio di tornare indietro di decenni. Come se al gioco dell’oca delle Indicazioni ministeriali e delle pratiche quotidiane alla scuola italiana toccasse la casella “Ritorna agli anni Cinquanta”, dove ci attende un Giano bifronte, con uno sguardo nostalgico e l’altro tecnocratico.
Tra le recenti esternazioni del Ministro sui cambiamenti che intende apportare ai “programmi” (le sue intenzioni, al di là delle rassicurazioni dei suoi esperti, paiono certamente orientate a “programmi”contenutistici, più che a “indicazioni” di finalità) non può passare inosservata quella relativa alla grammatica:
La cultura della regola inizia dallo studio della grammatica. In particolare, è importante trasmettere all’allievo, fin dall’inizio, la consapevolezza del valore della correttezza linguistica e formale, dell’ordine e della chiarezza nella comunicazione.
Questa affermazione, che sembra uscita da un breviario del buon maestro di non so bene quale decade (si può risalire di molto!), è stata opportunamente rilevata e commentata da Giulia Addazi[1], che giustamente ricorda come una simile concezione del ruolo scolastico della grammatica (oltre che discutibili orizzonti etici e valoriali) implichi, sul fronte degli insegnamenti linguistici, il ritorno a posizioni discusse e superate da decenni e al contempo neghi i reali approdi del dibattito all’interno della comunità scientifica. Rinforzi metacognitivi e incremento delle competenze d’uso sono le finalità strategiche che deve porsi un approccio politicamente e culturalmente sano alla riflessione sulla lingua e alla grammatica, non certo l’addestramento al rispetto delle regole (terreno sul quale gli usi linguistici, tra l’altro, sono quanto mai assai poco affidabili). Come si è detto, al perseguimento di quelle finalità la grammatica normativa e tradizionale non solo non serve a nulla (Addazi ricorda al riguardo Guido Calogero, con un riferimento al 1955, per l’appunto) ma svolgerebbe oggi, ancor più che in passato, il suo antico e consolidato ruolo selettivo, con la complicazione di poter far danni ancor più profondi e indifferenziati perché è ancora più difficile individuare stratificazioni socioculturali in grado di reggere addestramenti normativi senza esserne emarginati o stravolti.
Non ci resta che sperare nei consulenti e negli esperti di cui il Ministro intenderà avvalersi, perché le motivazioni di una simile affermazione sono forse immaginabili con criteri di ideologia politica, ma sono molto difficilmente accettabili sul fronte del dibattito linguistico o peggio ancora di quella che appunto le Dieci Tesi definivano la “pedagogia linguistica tradizionale” e che ha in quell’affermazione del Ministro una sorta di ieratico manifesto programmatico a ritroso nel tempo.
Ma non è certo un caso che si ritorni lì, come non è un caso che i menzionati attacchi a De Mauro e all’educazione linguistica democratica del 2017 mirassero a questo obiettivo. Che fossero gravi e pericolosi lo si colse subito. Non immaginavamo allora, che si sarebbero create le condizioni perché qualcuno potesse attuarle.
Anche per questo, contributi come quelli di Mirko Tavoni, dei linguisti intervenuti nel dibattito, devono rimettere in moto, in associazioni come il Giscel, spesso chiamato in causa o di altre, disciplinari e non, che per decenni hanno sostenuto il rinnovamento della pedagogia linguistica, e nella scuola da parte dei docenti una ferma volontà di attenzione e quindi di elaborazione e di intervento, che consentano di far argine ai rischi regressivi imminenti e poi, soprattutto e presto, di elaborare strategie capaci di fronteggiare le trasformazioni che stanno già comunque investendo gli universi della comunicazione e dell’educazione. E che non saranno facilmente migliorative, a livello di emancipazione cognitiva, linguistica e culturale di tutte/i e di ciascuna/o, se non si adotteranno strategie di “pedagogia linguistica e comunicativa” assai più complesse ed efficaci di quelle fin qui impiegate.
Non si sottovalutino, in tutti i contesti applicativi, i rischi di teorizzazioni e pratiche che uniscano fideismo tecnocratico e scelte politiche reazionarie, soprattutto se non si sapranno adottare, al più presto, analisi critiche radicali dei processi in atto e scelte conseguenti:
Una cosa è sempre più evidente: bisogna urgentemente decostruire la visione “strumentale” dell’IA, che ha un approccio adattivo e subordinante.[2]
[1] Addazi G., “Una ginnastica d’obbedienza: la grammatica ideologica di Valditara”, “Domani”, 25.1.2025,
[2] Guastavigna M., “Intelligenza ri-genarativa”, “Gessetti colorati”, 23.09.2023.
Per la versione cartacea : scarica qui il pdf
Giocando con il generatore di immagini a corredo del testo

Le due figure sono ottenute fornendo al generatore di immagini (extendify) questi due prompt:
- Il futuro tra artificiale e retrò. Prodromi di una pedagogia bifronte. (la prima qui sopra)
- Il futuro fra intelligenza a artificiale e politica nostalgica. Prodromi di una pedagogia linguistica bifronte. (la seconda qui sotto).
Come sempre lascio a chi legge e guarda la valutazione della loro efficacia.

Aggiungerei una sola riflessione collaterale: i due scenari sono comunque più suggestivi che inquietanti; e in questo non rendono in modo efficace il mio stato d’animo rispetto a quanto esposto in questa appendice.
E allora ho provato così:
- Il futuro fra intelligenza artificiale neocapitalista e politica nostalgica di regime. Prodromi di una pedagogia linguistica bifronte.

Rende più lo stato d’animo!