Mario Ambel, ottobre 2024
(Testo scritto per “Cooperazione Educativa”, rivista dell’MCE)
A quasi cinquant’anni dalle Dieci Tesi per l’Educazione Linguistica democratica è quasi doveroso, anche se non semplice, interrogarsi sullo stato dell’arte dell’insegnamento dell’italiano. Non è semplice perché non disponiamo di dati significativi sia sull’andamento dei livelli di apprendimento nelle diverse abilità linguistiche sia sul rapporto fra metodologie didattiche e risultati, che sarebbero poi anche gli unici dati di una qualche utilità.
Invece dobbiamo continuare ad assistere e partecipare alle ricorrenti diatribe sulla reale o presunta decadenza dei livelli medi della competenza linguistica nel nostro paese e soprattutto al rimbalzo di responsabilità fra quanti (in particolare nel dibattito pubblico sui media) incolpano di questo le presunte innovazioni didattiche prodotte dagli insegnanti progressisti dal Sessantotto in poi e quanti (certamente per esempio le associazioni professionali che più si sono battute in questi cinquant’anni per un reale rinnovamento dell’insegnamento linguistico) che ritengono invece responsabili i troppi insegnanti e contesti che sono rimasti ancorati a quella che le Dieci Tesi chiamavano “pedagogia linguistica tradizionale” e che non ha mai smesso di produrre i suoi effetti selettivi e diseguaglianti. Il tutto a fronte di una effettiva trasformazione dell’italiano standard diffuso, sulla quale incidono una quantità complessa di fattori che sono al contempo in parte conseguenza e molto causa di quello che appare come un decadimento delle competenze e degli usi linguistici, questioni sulle quali è sempre assai difficile formulare giudizi e valutazioni, anche per l’aleatorietà dei parametri di misurazione e giudizio.
Una cosa è certa: gli auspici contenuti nelle Dieci Tesi non si sono assolutamente realizzati e quindi gli autorevoli maître à penser che individuano Tullio De Mauro e i suoi epigoni fra i maggiori responsabili del degrado dell’italiano dovrebbero rivolgere altrove i loro strali. Il maggior auspicio delle Dieci Tesi: trasformare le e gli insegnanti di italiano da insegnanti di grammatica (normativa) e letteratura (con impianto storicistico) a insegnanti di educazione linguistica non si è minimamente realizzato, anzi, se possibile, è andato peggiorando. L’insegnamento grammaticale non è riuscito a diventare riflessione sulla lingua a partire dai testi (da comprendere), per tornare ai testi (da produrre); l’approccio alla letteratura, anziché educare lettori consapevoli e autonomi, ha ripreso a propinare la vita e il suntino delle opere di Boccaccio in seconda secondaria di I grado e quelli di Leopardi in terza; quanto all’ascolto e al parlato, cui le Dieci Tesi raccomandavano di prestare più attenzione in funzione del miglioramento delle competenze d’uso sociali della popolazione, stanno vivendo un periodo di interesse, ma finalizzato alla progettazione e gestione di gare di argomentazione con tanto di selezioni locali e nazionali. In attesa del reality “Il Débate degli sconosciuti” su Netflix. Senza dimenticare l’altra grande raccomandazione delle Dieci Tesi: estendere l’apprendimento della lingua oltre le ore di italiano, coinvolgendo tutte le “discipline” nell’incremento della varietà e della funzionalità degli usi linguistici. Nulla di tutto questo. O assai poco. Anche qui qualche novità significativa c’è stata: il Clil e fare le materie in lingua, ma per certi versi paradossalmente quelle straniere, come se l’uso dell’italiano, in storia, scienze, tecnologia fosse davvero un supporto e non spesso un impedimento. E, proprio in queste dimensioni, ci si dovrebbe occupare assai più sistematicamente della comprensione per l’apprendimento dei testi disciplinari e divulgativi, ma anche dell’uso adeguato e funzionale proprio della lingua orale, ovvero dell’ascolto e del parlato nei contesti di apprendimento, meglio se coooperativo.
Un altro aspetto non è stato perseguito ed è forse quello di cui c’era e ci sarebbe ancora più bisogno. Mi riferisco all’integrazione delle attività dedicate all’incremento delle “quattro abilità” linguistiche: ascoltare, leggere, parlare, scrivere. I percorsi e le unità di apprendimento tengono ancora troppo separate le diverse abilità, non si occupano di integrarne l’uso consapevole e il miglioramento graduale. Qualcosa si è fatto in tal senso, ma troppo poco. Così come troppo poco ci si preoccupa di connettere la riflessione sulla lingua con l’incremento delle competenze d’uso.
Insomma, molti di noi sono convinti, magari ostinatamente, che anche oggi bisognerebbe ripartire da lì, da dove ci eravamo illusi di incamminarci a metà degli anni Settanta. Certo, da allora sono cambiate molte cose. Ne vorrei citare due: l’aumento esponenziale dei flussi migratori e quindi della presenza di alunne e alunni con altri back ground linguistico-culturali e il progressivo diffondersi dei dispositivi digitali fino alla recente comparsa sulla scena (anche delle aule) dei generatori di immagini e testi.
L’ambito del primo cambiamento è quello in cui si sono compiuti i passi più significativi: molta ricerca e sperimentazione ha coinvolto qualcosa che nel 1975 non esisteva o muoveva altrove io primi passi: l’italiano L2. È certamente questo il terreno su cui si sono maggiormente concentrati impegno e sforzi anche qualitativamente considerevoli. La strada della completa integrazione linguistica non è certo facile (tanto più che non è favorita o sostenuta da quella giuridico-formale in età scolare) ma viene certamente affrontata in modo attento e qualificato, forse persino più per gli adulti che per ragazze e ragazzi in età scolare. Certo, al riguardo, non aiuta fare della lingua non tanto una conquista di emancipazione sociale e di convivenza civile, ma un merito da dimostrare di aver acquisito per guadagnarsi rispetto e cittadinanze. Ma qui il discorso sarebbe lungo. Potrebbe bastare un esempio: sarebbe come decidere che per possedere un bene o una proprietà gli italiani per sangue e gene dovessero anche dimostrare di saper leggere e scrivere e magari conoscere la Costituzione. Del resto era già così una volta; anzi si potrebbe ricordare che con l’approvazione del suffragio universale maschile, nel 1912, il diritto di voto vanne esteso a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 30 anni o che, pur minori di 30 anni ma maggiori di 21, pagassero un’imposta diretta annuale di almeno 19,80 lire, o avessero conseguito la licenza elementare inferiore, oppure avessero prestato il servizio militare. In tal modo il corpo elettorale passò dal 7% al 23,2% della popolazione. (Wikipedia). Insomma la strada della cittadinanza è stata lastricata di ingiustizie anche per gli indigeni; perché regalarla agli stranieri, sostengono quelli che vivono ancora con i principi nel 1912. O poco dopo.
L’ambito del secondo cambiamento è altrettanto se non più complesso e purtroppo non si segnala, per ora, per approcci complessivamente positivi. Ormai da ben più di un quarto di secolo viviamo immersi in una comunicazione sociale e professionale fortemente orientata e condizionata dall’uso massiccio di dispositivi digitali di varia natura, il cui uso è stato incrementato anche per la scuola dopo l’esperienza pandemica e che dal 2022/23 ha visto l’immissione e la diffusione di vari dispositivi genericamente annoverati sotto l’onnicomprensiva e ottundente denominazione di “IA”, con particolare riferimento, per i processi educativi, ai LLM e ai generatori di testi e immagini. Qui la questione si fa molto più complessa anzitutto perché l’approccio che si sta diffondendo a questi dispositivi, alla loro genesi e natura, ai loro fini è decisamente poco analitica, critica e nel complesso consapevole. Soprattutto non c’è sufficiente consapevolezza né delle implicazioni del loro uso in contesti professionali, né men che meno in contesti di apprendimento. Del resto usare i dispositivi informatici e digitali senza preoccuparsi in modo adeguato e sufficiente delle implicazioni che comportano in ambito cognitivo o psicologico e comportamentale è un errore già compiuto con tutti gli altri. Con questi potrebbe rivelarsi assai più complesso e per certi versi deformante. È ovvio che di fronte ad “assistenti alla comprensione e alla scrittura” che sono in grado di leggere, riassumere e commentare uno o più testi in modo più veloce ed efficace certamente degli allievi, ma anche dei docenti, è inevitabile chiedersi se e con che cosa e soprattutto come sia ancora necessario, utile, magari indispensabile insegnare a leggere e scrivere. Ma con, per o nonostante questi dispositivi? E quali? Sono interrogativi cui dovremmo incominciare a rispondere. Magari prima di cominciare a usarli, coxa che invece si sta facendo talvolta in modo assai disinvolto o in modalità e prospettive di totale sudditanza, ideologica, strumentale e cognitiva.
Insomma, tutto ciò che abbiamo o non abbiamo fatto, sta forse per essere travolto o quanto meno modificato. A noi resta una convinzione, che sarebbe tutta da dimostrare, ma ahimé non sarà più possibile. Se negli ultimi 50 anni si fosse insegnato secondo i principi e i suggerimenti delle Dieci tesi e dell’Educazione linguistica democratica, arriveremmo a questa svolta più preparati. Rischiamo invece di pagare assai cara l’ostinazione a insegnare secondo la “pedagogia linguistica tradizionale”, quella dei temi, dell’analisi grammaticale esplicita e normativa, della storia della letteratura e dei classici, della scarsa flessibilità e varietà linguistica, della scarsa attenzione alle competenze linguistiche di partenza e ai condizionamenti socio-ambientali, ecc. E dei voti, ovviamente. Soprattutto cari a chi “merita”.